Un oceano senza rotte
Un oceano senza rotte
I Big Data: un mare navigabile o un naufragio annunciato?
Di Daniele Gigli
Ne sentiamo parlare da qualche tempo, ormai, e talvolta forse ne parliamo, come di quelle cose talmente orecchiate da sembrare anche conosciute. Si tratta dei Big Data, sigla ambigua a volerla definire ma che promette l’accesso a ogni conoscenza.
La conoscenza, già. Certo che tra sapere una cosa e conoscerla passa una lama sottile ma ineludibile. Lo scriveva Giorgio Caproni in una sua bellissima poesia: «Viltà d’ogni teorema.// Sapere cos’è il bicchiere.// Disperatamente sapere/ che cosa non è il bicchiere,/ le disperate sere/ quando (la mano trema,/ trema) nel patema/ è impossibile bere». Perché tra intuire la presenza di una cosa e conoscerla, passa la capacità di usarla, di intuirne il senso e quindi fruirne. Se non si sa cos’è un bicchiere si può anche averlo in mano, ma è impossibile bere. Come per un bimbo di due anni cui piaccia di più usare la forchetta per pettinarsi che per inforcare un maccherone e mangiare.
Che cosa c’entra con i Big Data? C’entra, eccome. Perché il dato non è un’informazione e un’informazione non è un sapere, così come un sapere non è una conoscenza. Lo scriveva Eliot nei Cori della Rocca, lo ricorda – tra gli altri – Riccardo Ridi nel suo bel libro Il mondo dei documenti. Cosa sono, come valutarli e organizzarli (Laterza 2010).
Perché sarà anche vero, come è vero, che in un mondo in cui la produzione di dati è diventata pletorica, averne l’accesso al maggior numero possibile è una possibilità preziosa per la conoscenza. Ma lo è altrettanto che senza un criterio ermeneutico che indirizzi l’analisi, questi dati restano inerti, incapaci di parlare. Pensiamo a quando, nella Rift Valley, antropologi e paleontologi cominciarono a trovare resti umani. Pensiamo a Lucy in the Sky with Diamonds: quelle ossa, i frammenti d’ossa di quella ragazzina di tre milioni di anni fa, poterono essere riconosciuti e studiati e com-presi perché guidati dall’idea di che cos’è un uomo e quindi di che cosa non lo è. Allo stesso modo, perché un dato granulare non resti un’inservibile scheggia ossea ma divenga realmente parte di un’informazione è essenziale che vi sia una chiave che ne orienti la stessa ricezione. Un dato, perché parli, va innanzitutto accolto e una reale accoglienza può avvenire solo in un contesto interpretativo che ne sappia leggere gli elementi.
Ecco perché, proprio oggi che ci si rendono disponibili sempre più dati e sempre più atomici, diviene essenziale una difesa e una ripresa del rigore metodologico nella loro produzione e nella loro lettura. I metodi della ricerca storica e bibliografica, senz’altro; ma anche aspetti fondanti della disciplina archivistica che il record management fatto in casa rischia di dimenticare: la selezione dei documenti come aspetto essenziale della loro valorizzazione; la strutturazione e correlazione dei dati già nel momento contestuale della loro produzione; una forma mentis diplomatistica nella valutazione formale dei documenti reperiti.
«Where is the wisdom we have lost in knowledge?/ Where is the knowledge we have lost in information?» Sono domande, queste di Eliot, che occorre porsi nel trattamento dell’informazione, perché l’hybris tecno-informatica non inverta mezzi e fini, rendendo ineluttabile la sua profezia. La profezia di un mondo informato di frammenti cui non corrisponde alcun insieme, quella per cui, è facile vederlo, «All our knowledge brings us nearer to our ignorance».
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