Saggezza della folla
Saggezza della folla: la media degli stati d’animo?
Un modello di rilevamento dell’informazione basato sulle “decisioni” della folla
Di Daniele Gigli
La nostra azione non è mai neutrale: esprime per necessità una visione del mondo, sia pure inconsapevole, un complesso di azioni e di abiti mentali che fanno da alveo alle nostre giornate. Sono le cose che “si sanno”, quelle che “bisogna fare”, che “sono sempre state così”: coordinate necessarie perché l’uomo non sia costantemente paralizzato dal terrore e ingabbiato nell’inazione.
Sarà anche per questo, forse, per questo bisogno innato di coordinate, che di fronte al loro crollo fioriscono sempre più insistenti e invadenti le celebrazioni del cambiamento, assunto come valore da perseguire e non come dato di fatto da governare. È come per la volpe con l’uva: di fronte a un anelito di vita sana che appare sempre più irraggiungibile, il lavoro della mente sociale collettiva si indirizza a tentare di desiderare altro. Di qui, la spinta sociale verso una concezione atomica e singolarista dell’uomo, che se da un lato mina le fondamenta culturali di un suo sviluppo armonico e cooperativo, dall’altro si confronta paradossalmente con una retorica dell’aggregazione e della cooperazione sempre più pressante.
È in questo brodo di coltura che in anni recenti prende quota il concetto di saggezza della folla. Teorizzata già in ambito positivista, a cavallo tra Ottocento e Novecento, è al giornalista del «New Yorker» James Surowiecki e al The Wisdom of Crowds (2004, trad. it. 2007) che l’espressione deve la sua nuova fortuna. Partendo dall’analisi di alcuni casi scuola, Surowiecki elabora un modello di rilevamento dell’informazione secondo il quale di fronte a una qualunque scelta, una folla (attenzione, non una comunità, una folla: un’aggregazione massiva di singoli) prenderà sicuramente una decisione “migliore” di qualunque suo singolo componente.
E se l’idea ci pare un po’ bizzarra – così a mezza strada tra l’idea riposante della saggezza popolare e il rigore descrittivo dell’analisi scientifica – drizziamo le antenne, perché nel paradigma scientista che ci pervade tutti noi la assumiamo quotidianamente per buona. Ci affidiamo a Wikipedia, leggiamo e confrontiamo le recensioni su locali e bed and breakfast, andiamo a vedere la mostra che tutti vanno a vedere, fondandoci non su giudizi comuni, ma sua una media di giudizi singolari che ci illudono di una certezza che non sanno dare.
Ciò che è paradossale infatti, in questo tentativo di recuperare le “cose che si sanno” – di recuperare, in parole povere, la sicurezza di “fare la cosa giusta” – è il suo riassorbimento nel paradigma scientista. Un riassorbimento che sostituisce alla fiducia e all’esperienza comune e provata che validavano un dato sociale come sicuro, quella che sembra una media statistica di stati d’animo. Nessun valore all’influenza reciproca e alla persuasione – che anzi, nel sistema di Surowiecki sono condizioni assolutamente da evitare – e l’idea sottesa che il “meglio” non sia fatto da un bene da cercare, praticare, e preservare ma sia invece espressione di un bene da costruire.
Una concezione, quella dell’ingegneria del bene, che apre la strada a scenari distopici, come i discorsi sulla così detta intelligenza collettiva, e che trova critiche fondate e intelligenti non solo tra retrivi neoluddisti, ma anche tra persone che hanno fatto e continuano a fare la storia dell’informatica. Uno di questi è Jaron Lanier: «Tu non sei un gadget», ci dice, ed è così affascinante, il monito, che presto dovremo parlarne.
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