Remix culture e copyright

Remix culture e copyright

Di chi sono le “nostre” invenzioni?

Di Daniele Gigli

Per chi è nato tra gli anni Settanta e Ottanta, la parola remix richiama alla mente terrificanti versioni iper-ritmate di canzoni di successo. Era uno scotto da pagare sull’altare della gloria: non appena un motivetto, anche dei più sentimentali, raggiungeva una certa diffusione, qualche solerte dj lo “remixava”, rendendolo un indigesto polpettone techno-house pronto per la discoteca.

Di che parliamo invece oggi, se parliamo di remix culture? Di un modo di definire la cultura popolare contemporanea degli ultimi due-tre decenni: una cultura in cui l’arte del taglia-riscrivi-incolla non è più – come nel modernismo di inizio Novecento – un atto provocatorio con valenze politiche e artistiche ben definite, ma la prassi ordinaria della creatività a tutti i livelli. E se il digitale ha favorito l’esplosione di questa pratica in cui anche la distinzione tra professionisti e non professionisti sembra saltare, ha altrettanto fatto emergere alcuni problemi, che esistevano già ai tempi dei copisti medievali, ma che la nostra epoca dell’ego ipertrofico sente senz’altro in modo più acuto.

Primo fra tutti, il problema del copyright: non tanto in senso monetario – o non primariamente, almeno – quanto nel senso dell’attribuzione intellettuale: del merito – e persino della fama, a volte – che una creazione può portare al suo autore. Ed è ragionando su questo problema che un professore di Stanford, Lawrence Lessig, nel 2001 fonda Creative Commons, quelle due “c” accompagnate da altre sigle arcane che vediamo spesso in coda ai testi che leggiamo sul web. Un sistema di licenze che si concentra proprio sui diritti intellettuali – e non su quelli di sfruttamento – al fine di permettere la più ampia diffusione possibile dell’opera, conservando all’autore la paternità intellettuale e un certo controllo su modalità e fini del suo eventuale riuso.

Tagliando fuori la questione relativa ai diritti di sfruttamento, la scelta di una licenza simile si pone su un piano di opzione culturale. Una questione, si capisce, molto più ampia del copiare o non copiare, che va a intrecciarsi con domande più profonde, che toccano il rapporto tra uomo e società: che cos’è una cultura? Di chi è un’opera? Quale il nesso tra l’individuo che crea e la società che gli sta intorno?

E che differenza, se ancora esiste, tra arte e creatività?

TL;DR

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