Intervista a Marina Toffetti

Musiche dal giorno prima:
intervista a Marina Toffetti

A caccia di musiche dimenticate tra tardo Rinascimento e Barocco

Di Daniele Gigli

Se leggendo di Marina Toffetti si resta rapiti dal fascino dei suoi temi di ricerca, parlandole assieme coinvolge anche di più la sua giovialità, la cordialità con cui condivide e spiega gli studi che ama e a cui dedica gran parte delle energie. Questi studi – dedicati prevalentemente alla riscoperta e allo studio del repertorio tardo-rinascimentale e barocco, anche attraverso la ricostruzione di antiche partiture incomplete – le hanno portato di recente l’assegnazione dell’Italian Heritage Award©. Ora vogliamo chiederle che vita c’è alle spalle, perché mai ci si possa appassionare a riportare in vita musiche del Seicento.

Lei insegna Teorie musicali e ha come principale campo di ricerca la ricostruzione delle composizioni musicali lacunose. Che percorso di studi e di passioni l’ha portata qui?

C’è una passione per la musica di antica data che tiene il filo: perciò, come tanti altri in Italia, ho affiancato gli studi universitari (in Lettere moderne con un dottorato in Filologia musicale) a quelli in conservatorio, dove mi sono diplomata in Pianoforte, Composizione polifonico-vocale e Direzione di coro. 
Quanto alla ricostruzione delle composizioni lacunose, mi ci dedico da decenni, ma non si può dire che rappresenti il mio principale campo d’indagine. Semplicemente, trovandomi più volte nella necessità di «restaurare» partiture del passato nel corso delle mie ricerche, ho cominciato ad approfondire questo tipo di approccio e a riflettere sulla sua importanza e sui criteri che lo informano.

La sua attività di ricerca è circoscritta a determinate epoche e luoghi o la sua metodologia di studio può approcciare musiche di tutti i tempi e di tutte le nazioni?

È evidente che oggi non possa esistere il tuttologo. Personalmente, nel corso degli anni ho individuato come campo d’indagine preferito il tardo Rinascimento e il primo Barocco. Essendo milanese, mi oriento prevalentemente su musicisti di quell’area, ma spesso capita di fare «incursioni» in altre aree geo-culturali e in altri ambiti cronologici.
Quanto al modo di lavorare, più che di metodologie, parlerei di criteri che informano il mio tipo di approccio. In sé il ripristino è praticabile in tutti gli ambiti cronologici. Però un’operazione di questo genere richiede competenze, soprattutto di carattere stilistico, che sono necessariamente circoscritte. Si tratta di restituire non solo le tecniche, ma l’insieme di quegli stilemi, di quella gestualità musicale, che sono spesso la cifra distintiva non di un arco cronologico, ma di un solo compositore, se non di una singola fase del suo percorso creativo.
Per questo la ricostruzione di una partitura è operazione lunghissima e impegnativa. È un lavoro molto faticoso, ma altrettanto appassionante, perché crea un circolo virtuoso tra ricostruzione e analisi. La ricostruzione, cioè, fornisce domande sempre più precise e numerose all’analista e l’analista individua nelle composizioni superstiti le possibili risposte a tali domande. Ciò che manca, insomma, rende l’analista sempre più efficace, perché fare un’analisi significa porsi le domande giuste: non esiste un metodo di analisi «buono per tutte le stagioni», sarebbe pura ideologia. Con simili metodi si possono analizzare fattori assolutamente secondari, e quindi inutili. E tutto ciò che è inutile e fa perdere tempo è dannoso, visto il poco tempo che abbiamo!

Provi a raccontarci il processo di lavoro con cui restituisce alle voci, allo strumento e al contesto una partitura incompleta.

Non esiste la prova del nove dell’edizione critica, ma nella comunità degli studiosi ci sono criteri per individuare edizioni accettabili ed edizioni inaccettabili. Questo secondo me vale anche nel campo della ricostruzione, il cui ambito, per quanto più ampio, resta pur sempre quello della emendatio. È un processo di progressivo avvicinamento alla conoscenza dello stile, che non sarà mai quantificabile, ma potrà comunque produrre utili riflessioni sui criteri compositivi della musica del passato. Una pessima ricostruzione, infatti, ha comunque il vantaggio di rendere eseguibile una composizione caduta nell’oblio e di stimolare nuove riflessioni, che a loro volta potranno portare a ricostruzioni migliori. È diverso dal restauro di un’opera figurativa: nel caso di una composizione musicale, la ricostruzione non ne altera né danneggia in alcun modo le porzioni superstiti. Anzi, dirò di più: mentre un affresco danneggiato è comunque fruibile, una musica danneggiata non lo è, perché non viene più eseguita. Le è sottratta la possibilità di raggiungere le persone che potrebbero ascoltarla.
Il procedimento della ricostruzione si articola in alcune tappe successive. Di solito, per prima cosa trascrivo e formulo un’ipotesi di edizione critica dell’intera partitura. Il primo intervento analitico è quindi sulle porzioni superstiti. In seguito si tratta di individuare dei modelli, delle composizioni stilisticamente vicine a quella che mi accingo a «restaurare» da cui estrapolare possibili criteri ricostruttivi. Trovati i modelli, faccio un primo tentativo di ricostruzione, appoggiandomi alle logiche che la composizione deve rispettare. Per esempio, le composizioni polifoniche rispondono a una logica verticale e ad una orizzontale. La voce che ricostruisco deve perciò essere compatibile punto per punto con tutte le parti supersiti (logica verticale), ma deve nello stesso tempo essere dotata di una fisionomia melodica convincente (logica orizzontale). Anche per questo la ricostruzione la faccio un po’ cantando, un po’ suonando al pianoforte, un po’ con un programma di videoscrittura musicale che consente di ascoltare in tempo reale l’ipotesi di ricostruzione proposta. Infine, l’ultima fase del mio lavoro è quella che chiamo di «rodaggio». In questa fase cerco musicisti con i quali provare a eseguire la partitura per mettere alla prova dell’esecuzione e dell’orecchio la ricostruzione complessiva della composizione.

A un non addetto ai lavori, il suo lavoro appare del tutto pionieristico. Quali influenze l’hanno maggiormente guidata nel campo della ricerca? E lei, a sua volta, ha aperto delle strade? Ci sono altri studiosi che tentano il suo percorso, magari con metodologie diverse?

Devo dire che non mi sento una pioniera. Mi sono imbattuta in problematiche ricostruttive già una ventina d’anni fa, quando mi fu affidata la curatela di una raccolta di inni di Marc’Antonio Ingegneri (maestro di Claudio Monteverdi): una trentina di inni, di cui soltanto tre incompleti. Avrei potuto tranquillamente lasciare le lacune nell’edizione, invece decisi di provare a suggerire una un’ipotesi ricostruttiva. In seguito tentai la ricostruzione di un mottetto policorale di Luca Marenzio, del quale mancavano per intero due voci. Quindi rivolsi la mia attenzione alle musiche composte da Giulio Cesare Ardemanio per un’azione pastorale devozionale in onore di san Carlo Borromeo, che mi hanno inaspettatamente portato il premio Italian Heritage Award©.
Non mi sento pioniera perché negli anni mi sono resa conto che diversi studiosi nel mondo – spesso ignari l’uno dell’altro – hanno tentato e tentano strade simili: James Wood, per esempio, che ha ricostruito un libro di mottetti di Gesualdo da Venosa; o Thomas D. Dunn, che ha ricostruito i Vespri di Biagio Marini. E poi ci sono gli esecutori, che avendo assimilato lo stile dei compositori sono a volte in grado di trovare soluzioni ricostruttive particolarmente perspicue. Questo dato dovrebbe stimolare università e conservatori a stringere rapporti più stretti di quanto non si faccia oggi. Ma questo è un altro discorso…

A proposito di non addetti ai lavori, una domanda sul rapporto tra accademia e società. Quando lei fa un lavoro di recupero, ha in mente un pubblico accademico o si rivolge idealmente a tutti? Che rapporto c’è tra i suoi interessi di ricerca e la vita civile, la quotidianità di chi non è uno studioso?

Mi guardo bene dal restringere l’ambito dei possibili fruitori. Al contrario, sarebbe davvero bello potersi rivolgere a tutti. Il fine di questo lavoro non è solo quello di migliorare le nostre capacita analitiche della musica del passato. Il primo obiettivo, anzi, è restituire questa musica agli ascoltatori, quindi ampliarne il più possibile l’orizzonte d’ascolto. Non vorrei banalizzare, ma il bello è bello e chiunque può goderne. E le nostre radici culturali hanno una valenza simbolica e identitaria per tutta la comunità, quindi sarebbe bene offrirle a tutti. Quando affido una tesi ai miei studenti, li avverto sempre che loro da quel momento sono i depositari del bene culturale loro affidato e che sono responsabili dell’eventuale riproposta di quel bene alla comunità. Per questo penso anche che la divulgazione non abbia una valenza esclusivamente autopromozionale: contribuisce alla valorizzazione dell’oggetto di studio e può contribuire anche alla sopravvivenza della ricerca accademica. Rientra in un atteggiamento più aperto alla condivisione degli esiti delle proprie ricerche con un pubblico che ha tutto il diritto di chiedersi che cosa ci stiamo a fare noi accademici.

Sempre sul rapporto tra accademia e società. Tante volte lo studio del passato può essere un rifugio un po’ sterile in un mondo ideale che non tornerà più o al contrario il tentativo di forzare il passato ad usum presentis. È il problema dello storicismo e dell’antitesi tra storia e tradizione. Scriveva uno studioso irregolare come Rodolfo Quadrelli che «la tradizione è qualcosa che realmente è stata e che potrebbe ancora essere, se non fosse stata interrotta» (Rodolfo Quadrelli, La tradizione e la storia, in Il linguaggio della poesia, Vallecchi, Firenze 1969, p. 18). Ma anche che «talune possibilità che si sono realizzate non avranno seguito ovvero tradizione, altre che invece non sono mai state, aspettano solo il futuro per averne una», chiedendosi quali , tra le prime che «hanno la realtà della morte» e le seconde, che portano indosso «le possibilità della vita» siano «le più reali» (La tradizione e la storia, p. 19).  Lei, con il suo lavoro, restituisce al presente tradizioni che la storia aveva interrotto. In che cosa si distanzia il suo approccio da quegli studi tesi a improbabili recuperi tradizionalistici? Queste affermazioni di Quadrelli in che modo la interrogano?

Il mio lavoro è più sul versante della restituzione al presente delle tradizioni interrotte. In questo senso la prima domanda da farsi è: vale davvero la pena di rivitalizzarle? Spesso la risposta è affermativa, e lo dimostra anche il fatto che, dopo decenni di lavoro, si possa offrire un concerto che la gente apprezza. È la musica che parla, e in questi casi la musica immediatamente ripristina il suo contatto diretto con il pubblico.
Inoltre, se è vero che spesso lavorando su personaggi sconosciuti capita di imbattersi in belle sorprese, va ricordato che ci sono giunte diverse composizioni incomplete anche di compositori di prima grandezza che crediamo di conoscere fin troppo bene. Il fatto di poter ascoltare queste composizioni sinora trascurate perché incomplete potrebbe allora indurci a valutare diversamente anche quelle sinora note, se non persino a riscrivere diverse pagine della storia della musica.

Per salutarla, una domanda da archivista. Una necessità fondamentale degli archivi è sempre stata quella di selezionare, in momenti più o meno dati, la documentazione da conservare – tradere – e quella che poteva e doveva essere consegnata all’oblio. Pur nascendo entro esigenze logistiche, questa necessità rispondeva a un implicito bisogno di gerarchizzare i diversi documenti. È celebre e ancora attuale l’articolo di Paola Carucci Lo scarto come momento qualificante delle fonti per la storiografia, pubblicato nel 1975. Lei che cosa pensa, anche alla luce del suo lavoro di recupero, della tendenza odierna a usare i sistemi di storage come possibilità di rimandare in perpetuum le decisioni di merito su cosa valga tramandare e cosa no? Come si pone, concettualmente, di fronte all’information overload che un simile atteggiamento favorisce?

Da un lato è entusiasmante la possibilità di conservare qualsiasi dato. D’altro canto quel che fa la caratura di un operatore culturale è l’assunzione di responsabilità, la capacità di fare delle scelte. Il discorso vale per tutti i casi di information overload: a volte paralizzano il fruitore e molto spesso comunque non fanno che disorientarlo. Penso all’analogia con certe edizioni online che mettono a disposizione l’intero corpusdella variantistica, così che chiunque, anche senza alcuna competenza, si sente libero di scegliere fra le varianti e di confezionarsi la «propria» edizione critica di un testo. Al contrario, io apprezzo gli studiosi che osano, che prendono decisioni, anche quando queste li portano in direzioni diverse da quelle che avrei preso io. L’unico patto è che mi mostrino il processo con cui arrivano alle decisioni prese. Mettere tutto a diposizione del lettore significa abdicare al compito dello studioso, che è proprio opposto: assumere cioè una responsabilità e pronunciarsi sui punti più spinosi, mettendoci a disposizione un sistema organico di dati vagliati, selezionati e organizzati, sia pur in una maniera che è e sarà sempre discutibile.

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