Intervista a Luca Cottini

Quell’intreccio naturale tra cultura e tecnologia

Tra innovazione e tradizione, il rapporto necessario tra ingegno e ideale

Di Daniele Gigli

Che cos’è una cultura? Se pensiamo all’impostazione tradizionale dei nostri corsi di studio, sembra ovvio identificare la cultura di una nazione con le sue manifestazioni letterarie, con le più alte o le più sedimentate, anzitutto. E, tuttalpiù, con qualche spruzzata di musica classica del XVIII-XIX secolo e un’infarinatura di cinema a cavallo tra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso.

Ma se guardiamo invece a che cosa innerva le nostre giornate, i pensieri, i modi di agire, se guardiamo, in sintesi, a come si forma la nostra weltanschaaung, risulta subito abbastanza chiaro che quella che normalmente chiamiamo cultura non ne è che una parte minoritaria: nobile, altissima, capace soprattutto in passato di dettare un sentire e un’etica, ma pur sempre una parte e nemmeno troppo ampia.

È anche e soprattutto per questo che è interessante incontrare uno storico della cultura come Luca Cottini, per la sua attenzione a tutte quelle forme di cultura “vissuta” che impronta la linea della sua ricerca. Professore alla Villanova University in Pennsylvania, con un passato a Notre Dame, a Harvard e alla McGill, Cottini pone infatti il suo punto di osservazione proprio a mezza via tra cultura “alta” e cultura di massa. Un punto intermedio che, senza concedere spazio a revanchismi controculturali, tenta però di assegnare a ogni oggetto il suo posto: nella storia del mondo e nella storia delle singole culture.

Non parliamo di oggetti in senso generico, anzi, perché Cottini studia il rapporto tra oggetti di produzione industriale e la loro interazione con il pensiero, l’immaginazione e l’agire sociale. Più in particolare, da tempo i suoi studi si concentrano sulla società italiana tra il 1870 e il 1930: su quella singolare concatenazione di fenomeni sociali, politici, economici e culturali tout-court, cioè, che danno il via al Modernismo italiano, a quell’imperfetta – e per tanti incompiuta – sintesi che costituisce il peculiare rapporto del nostro Paese con la modernità.

Professor Cottini, come arriva un umanista a studiare la produzione industriale e la storia delle invenzioni?

L’umanista, o meglio l’intellettuale, ha il compito di inter-legere la realtà, ovvero di capirla «leggendola attraverso». In questa lettura, le arti figurative e la letteratura si sono da sempre proposte come un punto elevato e spesso esclusivo di osservazione e di comprensione del reale. Accanto alla cultura come istituzione, però, anche l’industria incarna un tentativo di leggere le sfide complesse del presente e immaginare soluzioni per il futuro, attraverso la convergenza straordinaria di conoscenza scientifica, innovazione tecnologica e narrazione di sé (si pensi alla pubblicità o alla creazione di costumi e pratiche sociali). Perciò possiamo dire che, seppure in forme diverse, sia la cultura che l’industria (intese etimologicamente come coltivazione e laboriosità) indicano la stessa condizione dell’esistere come «occupazione costante» – come uno stato, cioè, di busy-ness – che si sviluppa attorno allo stesso impegno di comprensione di fattori, ricerca di soluzioni ed elaborazione creativa di nuove forme.

molteni_c_ponti_d_655-1In questa prospettiva di studio allora quale spazio hanno le discipline «canoniche» del sapere umanistico? Hanno ancora rilevanza nella produzione dei processi culturali o dobbiamo rassegnarci a considerarle un sapere antiquario, affascinante ma in fondo superfluo?

Niente affatto, purché queste discipline non si auto-marginalizzino. Lo studio umanistico non solo offre un orizzonte culturale allo studio degli artefatti industriali, sottraendoli così alla unilaterità di sguardo del collezionista, ma allo stesso tempo modella anche un comune metodo di investigazione: di corretta comprensione e catalogazione (il lavoro del filologo, dell’archeologo, dell’archivista, del curatore), di interpretazione e lettura del presente (il lavoro dell’intellettuale o del manager) e di risposta sperimentale alla domanda sul futuro (il lavoro dell’università).

In ultima analisi, però, mi sembra che ciò che davvero importa nel comprendere e restituire una cultura non sia tanto l’analisi descrittiva o cumulativa dei suoi artefatti ma lo studio della loro interazione quotidiana con la comunità in cui essi si collocano.

Sì, credo che sia così. Vede, ogni artefatto si pone all’incrocio tra un mondo che lo genera e un immaginario successivo. A mio avviso, il periodo della prima industrializzazione offre un esempio singolare di tale dinamica. In ambito industriale, le grandi invenzioni che hanno accompagnato gli anni della prima rivoluzione industriale (fotografia, telegrafo, telefono, fonografo, bicicletta, cinema, radio, refrigerazione, etc.) nascono dalla cultura globale delle esposizioni universali (come sintesi di capitalismo, tecnologia e cultura) e danno forma a esperienze assolutamente inedite, come il vedersi, l’ascoltarsi, l’essere in due luoghi simultaneamente, il trasportarsi senza l’ausilio di un cavallo, e persino il volare… In ambito culturale, la situazione italiana offre un contributo unico alla comprensione di queste res novae (nelle parole di Leone XIII) e alla lettura della modernità industriale. A differenza di altri paesi a più rapida industrializzazione, il ritardo produttivo italiano e il sostrato culturale della nazione – pre-occupato da una lunga tradizione classica, dalla presenza della Chiesa cattolica – determinano infatti il formarsi di un’originale prospettiva sulle nuove tecnologie, espressa come costante interrogazione intellettuale del loro valore culturale, come vaglio critico delle loro implicazioni sull’esperienza umana e come elaborazione continua di una nuova modernità.

lib-1Faceva cenno adesso al contributo che la prima rivoluzione industriale italiana ha offerto alla modernità. È per questo che i suoi studi s’indirizzano soprattutto a questo periodo? Che cosa offre questo scorcio di luogo e di tempo sul piano epistemologico e su quello propriamente cronachistico-narrativo?

Come dicevo all’inizio, la mia ricerca sul passato ha a che fare con la lettura del presente e del futuro. E in tal senso, credo che gli anni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento offrano un’analogia unica con il nostro presente, caratterizzato negli ultimi decenni da un’equivalente pletora di invenzioni straordinarie (cellulare, internet, miniaturizzazione di tecnologie, etc.). In un senso più generale – data l’impossibilità di una distanza critica dal nostro presente – osservare un mondo a cento anni di distanza consente inoltre di poter immaginare come si parlerà del nostro tempo fra un secolo.

Si tratta quindi di una predilezione di carattere metodologico?

Oltre alle similitudini che ho evidenziato, lo studio di quest’epoca in realtà solleva una questione di metodo fondamentale, relativa cioè al come si osserva o ricostruisce una cultura. Prendiamo ancora per esempio i miei studi sulla fin de siècle. Se accettiamo la tradizionale prospettiva offerta dalla letteratura, la visione di questo periodo, modellata sulla vulgata critica del decadentismo, appiattisce il senso di un’epoca sulla dimensione della crisi, e sulla sola percezione del proprio horror vacui. Peccato che così si annulli, o si releghi in un ambito parallelo, l’entusiasmante rigoglio creativo di quegli anni, caratterizzato invece dal fervore per le esposizioni nazionali e universali, dal primo boom industriale, e dallo straordinario sviluppo di nuovi linguaggi come il cinema, la fotografia, la pubblicità, il design, la moda, e la fumettistica. Alla luce di tali considerazioni, mi ripropongo nel mio lavoro di connettere la riflessione «alta» della cultura come istituzione con l’immaginario sociale e esperienziale della cultura – intesa come modo di vivere – generato dalle nuove invenzioni e prodotti della modernità industriale. Non intendo con ciò rinnegare la tradizione letteraria, ma neppure considerarla un punto di vista esclusivo o onnicomprensivo. Osservando la trasformazione di alcuni oggetti di consumo di massa – orologi, biciclette, grammofoni, sigarette, giocattoli, vestiti – da prodotti a simboli estetici, letterari e filosofici, cerco invece di ricostruire concentricamente le interazioni tra scienza, tecnologia, mercato, società, e immaginario. In tal senso, come veri e propri siti culturali, gli oggetti costituiscono il perno di un metodo di un’analisi culturale ad ampio spettro che trovo applicabile anche ad altri periodi.

lib-6Perché in Italia non si è affermato il concetto di Modernismo come invece in altre nazioni?

La categoria di modernismo, intesa come ideologia del moderno, non si applica in Italia per due motivi. Da una parte, il termine si associa a un’eresia sviluppatasi in seno alla Chiesa cattolica e condannata da Pio X nel 1907, dopo anni di fervente dibattito ecclesiale. Dall’altra parte, seppur associata all’ambito architettonico in relazione al razionalismo o al design, la categoria di modernismo non ha trovato fortuna critica in Italia alla luce del successo critico del decadentismo. L’enfasi crociana sulla decadenza e sulla crisi elaborata a posteriori per condannare il Fascismo, ha contribuito non solo a trascurare le forti tensioni creative del periodo (di cui il Liberty o il Futurismo sono testimonianze ancora in fase di riscoperta), ma anche ad affermare la teoria di una modernità italiana incompleta (motivata da una mancata Riforma). Negli ultimi 15 anni, la critica anglosassone ha riscoperto la categoria di modernismo in riferimento alla letteratura italiana, ribaltando il cliché decadente e irrazionale legato ad autori come D’Annunzio, Pirandello, Svevo, Marinetti e Palazzeschi, evidenziando in essi un dialogo più ampio con la cultura europea contemporanea, e rilevando il loro impegno nel decifrare la crisi postunitaria, non come espressione di decadenza, ma come occasione di sviluppo creativo. Nella mia ricerca, osservo il modernismo letterario, architettonico e industriale come parte di un unico fenomeno che ha come scopo l’elaborazione di una originale via italiana alla modernità.

Il periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento ha visto in tutta Europa sorgere movimenti di pensiero tesi a valorizzare l’arte applicata. In Italia, secondo lei, questa tensione ha inizialmente fallito – fatta salva qualche “isola felice” del Liberty – per poi attecchire un po’ più tardi, dal Futurismo in avanti fino alla teorizzazione di Giò Ponti sul design come cultura intermedia. Ci può raccontare come e perché in Italia si è avuto questo sviluppo?

Sin dal Rinascimento, l’Italia ha continuato a mantenere un primato assoluto nella lavorazione della seta, del vetro, della ceramica, della paglia, del cuoio, tramandato e coltivato secondo la tradizione della bottega artigianale, ma, nella prima età industriale, ha faticato a sviluppare modelli di produzione di massa. Il Liberty nasce, in tale contesto, come tentativo di elaborare una forma di cultura intermedia a metà strada tra arte e produzione seriale. Lo vediamo per esempio nel lavoro sperimentale di grandi artisti del ferro come Alessandro Mazzucotelli e del legno come Carlo Bugatti ed Eugenio Quarti. Qualche anni più tardi, il secondo Futurismo, quello di Balla e Depero, si costituisce in modo simile come una riflessione estetica applicata a prodotti di consumo quotidiano come vestiti, giocattoli, e mobili, riconfigurati attraverso l’arte come oggetti unici. In mancanza di un progetto industriale unitario, in Italia si sviluppa negli anni Dieci e Venti un modello empirico, nato sia dall’interesse di alcuni artisti per l’industria che dal desiderio di alcuni imprenditori di investire nell’arte per distinguere il proprio prodotto. In questo caso pensiamo a sodalizi come quello tra la Borletti e D’Annunzio, Bianchi e Boccioni o Campari e Depero. La cultura del design, teorizzata da Gió Ponti nel 1928, nasce come sintesi di queste esperienze e come discorso di continuo aggiustamento e rielaborazione di linguaggi. Nella lettura di Ponti, l’imperfetta modernità italiana non rappresenta più un impedimento, ma la condizione intrinseca della sperimentazione creativa, spinta dal proprio limite alla ricerca di soluzioni imprevedibili e all’invenzione di nuovi linguaggi ibridi.

La sua attenzione alla cultura quotidiana, la rilevanza che le dà nel considerare una civiltà, sembra in qualche modo de-sacralizzare, anzi de-monumentalizzare implicitamente la cultura artistica, rendendola per certi versi – però – più usabile, più capace di interferire con le nostre vite. Vien da pensare per opposizione a una certa visione della conservazione e della valorizzazione dei beni culturali, trattati come totem di fronte ai quali inchinarsi e passare avanti, anziché come espressioni di un vissuto capaci di “fare legge” nelle nostre vite, di interferirvi sul serio e di modificarle. Così, per salutarci, le chiedo: che rapporto c’è, per lei, tra memoria, conservazione e tradizione? Come la cultura passata può uscire dalla condizione schizofrenica per cui è a un tempo un grave peso morale e ideologico ma non quella che Steiner chiamerebbe una “vera presenza”?

Nel teorizzare la cultura del design, Gió Ponti invitava a riscoprire le forze occulte della tradizione, indicando che la tradizione, prima di essere passata, era un tempo moda, presente, forza generatrice di vita. Più che un deposito da venerare o un peso di cui liberarsi, egli intendeva la tradizione, fosse figurativa, letteraria, culturale tout court, come una risorsa creativa con cui dialogare per re-inventare ed elaborare nuove forme. Come per la memoria, conservare la tradizione non vuole dire cristallizzarla in una sola lettura possibile, ma riscriverla e re-immaginarla continuamente. In analogia con il design, anche la letteratura e le arti visive sono, per loro propria natura, forme di re-invenzione creativa e immaginazione plastica di memorie precedenti: Dante riscrive Virgilio per renderlo attuale e creare il suo nuovo linguaggio; lo stesso vale per Bernini con Michelangelo. Un ulteriore esempio di tale dinamica viene dagli amanuensi medievali, che non solo copiavano i codici, ripetendo e perpetuando le forme del passato, ma li «illuminavano», associandoli a nuove forme grafiche come le miniature, o arricchendoli di nuovi commentari critici (la critica infatti non è occupare un testo ma riscriverlo ricreandolo). Come per i copiatori medievali, la fantasia imitativa e creativa del design o della letteratura ha oggi un simile ruolo sociale fondamentale: da una parte, riscrivere rendendo viva la tradizione (molti italiani convivono con tesori inenarrabili del passato senza nemmeno accorgersene); dall’altra, immaginare nuove forme per la vita dell’oggi e del domani. La ricerca sperimentale della bellezza – ma come evento, non come idolo – ha lo scopo di entusiasmare al lavoro, e il lavoro è per costruire, riformare, e rinascere costantemente, come individui e come società.

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