Intervista ad Angela Maiello
La rete come archivio
Angela Maiello ci parla della rimediazione
Di Daniele Gigli
Le ultime incursioni di Overlook ci hanno fatto entrare nel mondo pitto-elettronico di Davide Coltro e accostare la modalità obliqua con cui Luca Cottini studia il rapporto tra cultura, immaginario e produzione attraverso lo sviluppo e la diffusione degli artefatti. Non si sorprenda quindi, il nostro lettore, se anche Angela Maiello e il suo libretto L’archivio in rete (GoWare, 2015, 76 pp.) hanno colpito la nostra immaginazione. Perché Angela Maiello è una filosofa brillante quanto giovane (classe 1986) e il libro un’agilissima e acuminata sonda, capace di affondare nel rapporto tra la pervasività crescente della rete nella vita di tutti e quella che lei definisce la «naturale propensione dell’uomo a conservare».
Incuriositi dal suo approccio, capace di legare in modo insolito speculazione teorica e proposta applicativa, abbiamo chiesto ad Angela di mostrarci con più chiarezza i nodi di fondo del suo lavoro.
Angela, L’archivio in rete parte da tre «istantanee», per usare le tue parole, della nostra internet quotidiana. Da queste tre istantanee, inizi un discorso che va ben al di là della questione “tecnologia sì, tecnologia no”, e che arriva – a tuo dire – a investire i modi stessi di conoscenza del reale. Ci spieghi un po’ meglio che cosa intendi?
L’idea di base dell’Archivio in rete è che oggi stiamo vivendo una rivoluzione simile a quella portata dalla scrittura. In questo senso, in realtà, pur andandone oltre, il libro ha anche un interesse a intervenire sul tema “tecnologia sì, tecnologia no”. Spesso infatti, quando mi capita di fare lezione all’università, vedo che i ragazzi che studiano alzano un muro di diffidenza – come se nel loro immaginario una persona che studia, una persona colta, debba essere una persona che non usa, o che comunque un po’ snobba la tecnologia. C’è come un’idea diffusa e sottesa che la tecnologia renda stupidi.
Ora, posto che sia vero, il problema comunque è che stiamo vivendo una rivoluzione di impatto pari a quella della scrittura e dobbiamo farci i conti. Del resto, come sappiamo, già Platone attaccava la scrittura perché minacciava la memoria tipica dell’oralità… eppure oggi la scrittura ci sembra, non una delle fondamenta, ma il fondamento della cultura.
Che stiamo perdendo qualcosa, mi sembra innegabile: la capacità di concentrazione, ad esempio. Ma la questione che realmente si pone è “che cosa guadagniamo”, o quanto meno che cosa possiamo costruire di nuovo a partire da questa tecnologia. In questo senso, il punto fondamentale è che la tecnologia non va considerata come uno strumento che posso usare bene o usare male, con cui posso fare del bene o posso fare del male: l’oggetto tecnologico è qualcosa che si esternalizza dall’uomo e diventa una sua facoltà che sta al di fuori di lui. Per esempio, i social media rappresentano la modalità contemporanea e intensificata di esternalizzare la nostra memoria.
C’è quindi, nella tua visione, una continuità tra il corpo umano come ci vien dato e la tecnologia?
Sì, certo. Tutto ciò che riguarda la tecnica non resta senza impatto sulla configurazione del soggetto o dell’essere umano come corpo senziente che vive in un ambiente, ma è come un continuo ciclo.
Questa tuttavia non mi sembra una novità. Senza le lance, forse l’uomo non sarebbe diventato cacciatore, ma sarebbe rimasto un raccoglitore…
È vero. Ma è altrettanto vero che oggi c’è un problema di intensificazione e che una caratteristica propria degli oggetti digitali, soprattutto di quelli in rete, è di lavorare sul discrimine tra il corporeo – quindi il continuo, l’analogico – e il discreto del digitale.
La sfida in tutti i sensi è quella di guidare questo processo di esternalizzazione così massiccio. Quindi sì, superare la questione “tecnologia sì, tecnologia no”, richiede la consapevolezza che qualcosa si sta perdendo e il nostro compito è di scoprire che cosa stiamo guadagnando. Più che un cambiamento di valori, quella che stiamo vivendo è proprio una trasformazione dell’animale umano.
Questo è un cambio di prospettiva interessante, anche se non dimenticherei che l’uomo è un animale con una sua specificità, l’unico in grado, in fondo, di non subire l’istinto e le condizioni date, ma di indirizzare l’uno e le altre secondo ideale e volontà… Non è che tra apocalittici e integrati, prediligi i secondi?
Sì, senz’altro! Vedi, nel mio lavoro di project manager mi confronto spesso con sviluppatori e designer che lavorano sulle interfacce per rendere più fluido l’utilizzo di app e di siti. E in quella fluidità dell’interfaccia c’è un piacere, che Gilbert Simondon chiamerebbe “motorio”, sul quale siamo tutti chiamati a riflettere. Poi certo, vai su Facebook, guardi il wall e ti metti le mani nei capelli, ma non è un problema di tecnologia, è un problema di educazione. Un’educazione che senza dubbio oggi deve passare anche per un’educazione tecnica.
Sono d’accordo. Ma 60 anni fa fare la spesa una volta alla settimana non era un’opzione, perché il frigorifero chi ce l’aveva? Oggi invece è un’opzione praticabile ed è la tecnologia frigorifero che ci permette di pensare ciò che prima era impensabile. Secondo te la facilità di accesso a uno “speaker’s corner” quale Facebook o anche solo i commenti al fondo degli articoli di un sito non favoriscono quell’accelerazione di cui parlavi e, in un certo senso, l’ingovernabilità dell’educazione? L’invasività sempre crescente e “non meditata” della tecnologia non ostacola la possibilità stessa che l’uomo diventi uomo?
Io penso che la pervasività del dispositivo abbia un potenziale e che dovremmo anzitutto concentrarci a comprenderlo. Se mia mamma – che non ha mai usato il computer – usa il tablet più di me, mi viene ovvio pensare che quel dispositivo stia sollecitando delle potenzialità che sono proprie dell’animale umano. Io, nella gioia che ha mia mamma nel fare quelle cose, ci vedo qualcosa da indagare, che non può essere solo il luogo comune della nostra spinta voyeuristica o narcisistica. Sicuramente c’è del vero in questi luoghi comuni, ma come tutti i luoghi comuni vanno smontati per cercare di capire che cosa c’è dentro di originale o di più potente. Mia mamma non ha mai neanche cercato di accendere un pc. Al contrario, ha imparato e si diverte a usare il tablet: ecco, lì vedo la potenza dell’aptico, del fatto che tu quella cosa la stai toccando, che la controlli con le mani. Se le tecnologie sollecitano questa nostra sensibilità, questa modalità di conoscere le cose attraverso una fatticità, non si tratta più di vedere i vantaggi o gli svantaggi, ma di vedere che qualcosa sta cambiando e che la stessa categoria di vantaggio o svantaggio non regge più. C’è una rivoluzione in atto: una rivoluzione che richiede senz’altro un grande sforzo creativo cui non è detto che saremo all’altezza…
Arriviamo così al secondo aspetto su cui poni l’accento, e cioè alla coincidenza paradossale tra immediatezza e ipermediazione. In sintesi, se ho ben compreso, da un lato la digitalizzazione rende immediato l’accesso – e il riuso – di una gamma vastissima di contenuti, ridonandoci una conoscenza «tattile» del mondo («si impara smanettando», come dici a p. 44); dall’altro, questa rimediazione avviene in maniera modulare tramite interfacce, ponendo all’atto pratico un ulteriore diaframma tra noi e l’oggetto. Secondo te, in che misura questa dinamica è nella natura delle cose, e in che misura può o deve essere migliorata?
La caratteristica dei media, anche di quelli analogici – e ricavo questo concetto dal noto libro di Bolter e Grusin, Remediation – è di attivare la dinamica tra immediatezza e ipermediazione. L’esempio che faccio nel libro è quello di Instagram, dove l’immediatezza apparente è frutto di una grande ipermediazione: c’è un hardware, c’è una piattaforma software che è l’app, c’è dell’altro software, cioè i filtri da applicare alle foto.
Ed è in questo rapporto tra immediatezza e ipermediazione che si gioca la creatività. Per cui, di fronte a un’immediatezza evidente, il lavoro che si può fare è di intervenire sull’opacità dell’immediatezza. Che tu sia uno scrittore o – molto importante – un social media manager, cioè il primo a trasmettere la notizia a chi ti legge distratto sulla metro, si tratta di far sentire un’opacità che in qualche modo metta in questione quell’immediatezza. Non perché la notizia debba arrivare filtrata, ma perché ci dev’essere uno spazio di riflessione che si apre tra me utente distratto e la notizia che mi investe.
Questo secondo me dovrebbe essere il compito di un social media manager, per quanto contrarissimo alle logiche del “like”: quello di permettere – a me utente – di aprire uno spazio di riflessione, di opacità. Ed è una possibilità che si esprime per mezzo tecnico: dalla scrittura, al lavoro sull’immagine prima di pubblicarla… Insomma il compito è di frapporre qualcosa che mi faccia rendere conto – in maniera sensibile, non concettuale – della mediazione in atto.
Nel libro mostri come l’immediatezza ipermediata dei social si ottenga attraverso l’offerta di strumenti modulari come mezzo di interazione: la rosa di “reazioni” possibili ai post di Facebook, le procedure di caricamento di foto, l’offerta di filtri per lavorarle su Instagram, eccetera. Ora, sicuramente la modularità non è un’invenzione degli ultimi vent’anni: nel suo splendido libro Una squisita indifferenza, Kirk Varnedoe la individuava anzi come uno dei caratteri distintivi dell’arte moderna, esemplificando magnificamente la sua tesi sulle opere di Rodin e sulle ballerine di Degas e arrivando fino a Brancusi e Frank Stella. Più o meno nello stesso snodo di tempo, diciamo nei primi vent’anni del Novecento, il citazionismo viene assunto e sdoganato come prassi naturale, su un arco che va dalla pura satira all’opera “seria”. La domanda che sorge è perciò: in questo mondo social che vede la citazione come pane quotidiano (tu fai l’esempio dei meme, tra gli altri) e in cui la padronanza dei mezzi di produzione (smartphone, piattaforme blog, social) richiede sempre meno prerequisiti tecnici, che spazio ha – e come si definisce – l’atto creativo «originale»?
Il mio maestro, il filosofo Pietro Montani, dice kantianamente che la creatività è l’istituzione di una nuova regola. Per me oggi il creativo è chi istituisce una nuova regola nella relazione di questo mondo ibrido tra online e offline. Io ci credo molto che la creatività sia lì, nella programmazione e nel design di nuove modalità di esperienza ibrida, dove la sfida sempre più alta è quella di coinvolgere l’utente in modo riflessivo ma immediato; di creare spazi in cui l’utente usi davvero la possibilità interattiva senza ridurre internet a una versione avanzata della tv, come paventa Hossein Derakhshan.
In questo senso, continuo a credere che ci siano persone con una mente più creativa che possono istituire regole più facilmente di altre. L’atto originale creativo per me è quello che istituisce nuove regole per la nostra esperienza, che oggi significa innanzitutto la nostra esperienza come utenti. (Il mio prossimo lavoro lo vorrei proprio dedicare al concetto di user experience.) E mi pare che questo oggi avvenga molto raramente, ad esempio, se visiti una mostra… difficilmente esci e guardi il mondo in modo diverso. Invece se scopri un’app particolarmente pervasiva, che si insinua nella tua quotidianità, letteralmente puoi vedere il mondo con occhi diversi.
Vedi, una delle critiche che più spesso viene rivolta a posizioni come la mia è quella di ipotizzare un futuro a venire che, in realtà, non viene mai. È una critica che va accolta, ma a cui credo si possa rispondere con la ricerca e il costante impegno a leggere attraverso le pieghe del presente. Il genio è quello che crea nuove regole e noi oggi abbiamo tantissimo bisogno di regole. Non tanto, o non soprattutto, di regole “contenitive”, quindi in senso normativo, ma di regole “di costruzione”, regole che favoriscano e sollecitino la nostra creatività.
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