L’uomo di Jaron Lanier
L’uomo di Lanier: protagonista o accessorio della rete?
Riflettere sul concetto di realtà virtuale
Di Daniele Gigli
È l’alba degli anni Novanta quando il film Atto di forza – imperniato su uno Schwarzenegger avviato sulla strada dell’ironia e ospitante una giovanissima e sconosciuta Sharon Stone – porta nelle case del grande pubblico il concetto di una finzione così vera da poter ingannare la realtà: la realtà virtuale, quella realtà fatta di visori e sensori tattili che saranno i protagonisti, qualche anno dopo, anche del videoclip Amazing degli Aerosmith, dove le evoluzioni virtuali del giovane motociclista imbranato e della maliziosa e bellissima Alicia Silverstone marchieranno l’immagine nella testa e nell’anima di milioni di adolescenti.
Ma che cosa era successo, nel mondo della ricerca tecnologica, di così dirompente da aprire la strada a un’espressione – realtà virtuale – capace di fondare e indirizzare una larga parte dell’immaginario collettivo? Nella storia della cultura e dell’immaginario, si sa, spesso è questione di sintesi: di fatti e di espressioni che capitano in un momento e in un posto così esatti da catalizzare e chiarire qualcosa che è nell’aria magari da decenni, aspettando di trovare un nome e una forma più precisi e sicuri.
Ed è probabilmente qualcosa del genere che accade nel 1989, quando Jaron Lanier – fondando la VPL Research e inventando guantoni e visore per connettere il nostro corpo a uno scenario softwarizzato – sintetizza il tutto come realtà virtuale, catalizzando appunto gli sforzi intellettuali e tecnici di tanti che almeno dai tardi anni Sessanta, dal visore di Ivan Sutherland e Bob Sproull, stavano lavorando in quell’area di possibilità.
Sono anni, gli anni Novanta, di rivolta e speranza, di ideali che si rigonfiano come una vela finita la bonaccia. Lo yuppismo è morto, il Muro di Berlino abbattuto e anche la musica vede la rivoluzione grunge, il cui tratto distintivo, molto più che la rabbia e il furore espressi, è che si torna a suonare e sudare, a suonare strumenti veri e a sudare insieme in una sala prove o su un palco. Sarà anche per questo che il concetto di realtà virtuale deborda rapidissimo dalla realtà tecnico-pratica che deve definire e diventa una sorta di paradigma culturale a tutto tondo con cui confrontarsi.
Un confronto a cui Jaron Lanier non fa nulla per sottrarsi. Uomo dalla sensibilità e dall’estro poliedrici – oltre che programmatore è scrittore e musicista, particolarmente votato ad atmosfere medievaleggianti – Lanier riflette costantemente sul senso e sui risultati delle sue ricerche e del suo lavoro. E attraverso questa riflessione costante sul lavoro e sull’umano, sviluppa con una certa precocità una critica netta ma costruttiva dell’iper-ottimismo tecnologico che l’esplosione di Internet va ingenerando nel discorso sociale. Nell’articolo del 2000 Un mezzo manifesto (One-Half of a Manifesto), Lanier comincia ad opporsi al “totalitarismo cibernetico (cybernetic totalism)” che vede sempre più diffondersi, per esempio nelle posizioni di Ray Kurzweil. L’uomo, sostiene Lanier, non può essere considerato un computer biologico, né essere in alcun modo reale essere comparato a un computer: è diverso, ed è di più.
Questa critica si affina e si radicalizza negli anni seguenti, segnando un punto fondamentale nell’articolo Digital Maoism: The Hazards of the New Online Collectivism, uscito su “Edge” nel maggio 2006. In questo saggio acuminato Lanier affronta l’infatuazione generale per il concetto di saggezza collettiva, nel quale vede riposte troppe speranze irrealistiche e distopiche. La confusione dei piani tra analisi quantitative e qualitative, infatti conduce dapprincipio a usare metodi inadeguati all’oggetto, e in rapida successione, a misconoscere l’oggetto stesso: «Se cominciamo a credere che Internet stessa sia un’entità che ha qualcosa da dire – scrive Lanier – noi svalutiamo i creatori di contenuti e facciamo di noi stessi degli idioti».
La saggezza della folla, con la sua coercizione gentile e l’idea perversa che l’accordo di due o più persone legga la realtà sistematicamente e inconfutabilmente meglio di una sola mente, diventa nient’altro che una meccanicistica mente-alveare (hive mind). È questa, insieme alla critica dell’open source, la tesi di fondo di quello che ad oggi resta il suo libro capitale, Tu non sei un gadget, pubblicato nel 2010.
L’open source, sostiene Lanier in quest’opera, è una espropriazione della produzione intellettuale e perciò una forma di “maoismo digitale (Digital Maoism)”. Fondato culturalmente su quella mente-alveare che, preoccupata soltanto di sviluppare un problema dato, non sarà mai in grado di operare uno scarto di conoscenza vera e nuova, il concetto cooperativo alla base dell’open source si riduce nella visione di Lanier a un collettivismo limitante sul piano intellettuale e creativo e avvilente su quello economico. Parcellizzando la creatività e annullando il valore economico e di scambio dei contenuti culturali, infatti, si crea null’altro che il brodo di coltura necessario al dominio dei grandi gruppi, che hanno i mezzi economici e coercitivi per indirizzare la ricerca e per approfittare di forza lavoro gratuita.
Un’altra internet è possibile, dice Lanier: basterebbe creare un’economia di micro-pagamenti legati ai clic sui link. Così difficile? Così indesiderabile? Se la risposta può non essere ancora chiara, una cosa è invece certa: che questa domanda, occorre cominciare a farsela, seriamente e con coscienza. Davvero si può avere tutto gratis? Davvero internet ci dà tutto gratis?
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